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Colloqui di pace in Palestina: i perché dello stallo

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I colloqui di pace tra Israele e palestinesi sono cominciati il 2 settembre scorso, con un incontro a Washington tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Il padrone di casa, il presidente Barack Obama, aveva incluso la pacificazione della questione palestinese tra le sue priorità di politica estera.

Come deciso precedentemente, i colloqui sarebbero dovuti continuare per un anno, con incontri tra le parti ogni due settimane. L’ultimo mese, tuttavia, ha visto una serie di sviluppi che rendono sempre più lontana la prospettiva di un accordo tra israeliani e palestinesi. Per comprendere meglio la situazione passeremo in rassegna gli snodi principali dei negoziati in corso.

Gli insediamenti

Con la guerra dei sei giorni Israele conquistò Gaza, la penisola del Sinai, varie città della Cisgiordania, Gerusalemme est,  e le alture del Golan, trovandosi a controllare il triplo del territorio assegnatogli dalla risoluzione 181. In seguito il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva imposto ad Israele il ritiro dai cosiddetti territori occupati, ma questo è avvenuto per il Sinai solo nel 1982 e per Gaza nel 2005. I territori occupati, pur restando nelle mani di Israele, non sono stati annessi allo stato, sia per salvaguardare le caratteristiche etniche e demografiche dello stato ebraico sia perché potevano costituire un’importante moneta di scambio nei futuri negoziati.

La politica ufficiale, dunque, è stata di colonizzare esclusivamente per ragioni di sicurezza, cioè senza costruire vicino alle zone abitate dai palestinesi. D’altro canto, come riporta Americans for Peace Now, questo ha portato alla reazione di gruppi di nazionalisti religiosi che si opponevano all’idea di cedere la terra conquistata. I nuovi coloni si sono insediati vicino ai luoghi biblici, considerando queste terre come legittima proprietà del popolo ebraico. Questi insediamenti, pur essendo illegali per il diritto israeliano, non sono stati sgomberati dal governo di Tel Aviv e costituiscono, ora, il nucleo del problema degli insediamenti.

Quei coloni che dalla fine degli anni sessanta si sono stabiliti nelle zone assegnate dall’Onu al futuro stato palestinese si sono moltiplicati e ora desiderano costruire nuove abitazioni o ampliare quelle esistenti. I coloni, distribuiti in un centinaio di insediamenti, sono ora circa mezzo milione e hanno subito un netto incremento durante i negoziati di pace degli anni novanta, quando sono passati da 200.000 a 400.000. Il muro di sicurezza, costruito a partire dal 2000 per proteggere Israele dagli attacchi terroristici, include anche alcuni dei maggiori insediamenti della Cisgiordania, sebbene ne rimangano esclusi vari ancora più a est. Tanto gli insediamenti come il muro sono stati definiti illegali dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

Il presidente statunitense Barack Obama, un anno fa, aveva insistito perché Israele abbandonasse la costruzione degli insediamenti nei territori occupati. Chiarendone la posizione, il Segretario di Stato Hillary Clinton aveva affermato: “[il presidente] vuole vedere un’interruzione di tutti gli insediamenti – senza eccezioni per alcuni insediamenti, per avamposti o per crescita naturale”. Tuttavia Obama era riuscito solamente a far accettare a Israele una moratoria di dieci mesi sulla costruzione di insediamenti nei territori occupati, tranne a Gerusalemme Est, a partire da novembre 2009.

Alla scadenza prefissata, il 26 settembre 2010, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato che le costruzioni sarebbero ricominciate. Le pressioni statunitensi ancora una volta si sono dimostrate inefficaci, non riuscendo neppure a convincere Tel Aviv ad un’estensione di 60 giorni. In cambio Washington aveva promesso ingenti aiuti militari, appoggio per il mantenimento di una forza israeliana nella valle del Giordano, aiuto per contrastare il contrabbando di armi nei territori palestinesi, lo scudo del veto nel Consiglio di Sicurezza e l’impegno a favorire la stipula di un accordo di sicurezza per la regione.

L’intervento della Lega Araba

Il capo negoziatore palestinese Saeb Erakat aveva annunciato che avrebbe abbandonato i colloqui di pace nel caso la moratoria non fosse stata estesa, tuttavia Abu Mazen ha fatto sapere che avrebbe aspettato l’incontro del 4 ottobre della Lega Araba prima di decidere come reagire. Così, i ministri degli esteri del mondo arabo si sono riuniti in Libia e hanno dato il loro appoggio alla decisione di lasciare il tavolo negoziale se non fosse cessata la costruzione di insediamenti. Tuttavia, la Lega Araba ha anche dato ai negoziatori un altro mese di tempo per trovare un accordo, premendo sugli Stati Uniti perché intercedessero presso Israele.

Ultimamente Abu Mazen cerca sempre l’appoggio della Lega Araba prima di intraprendere svolte politiche, data la sua estrema debolezza interna. Questo gli permette di mostrare che quanto da lui deciso gode del supporto dei vicini arabi, oltre a migliorare la sua legittimità di fronte alla comunità internazionale, necessaria per mantenere gli aiuti economici da cui l’Anp dipende.

Fatah, inoltre, ha perso buona parte del consenso interno, anche per via della dilagante corruzione che macchia l’Anp. D’altra parte i colloqui di pace sono estremamente importanti per Fatah dato che storicamente la legittimità dell’Anp aumenta sempre quando esiste la possibilità di raggiungere una soluzione negoziata. Al contrario, Hamas si trova sempre a vincere popolarità quando i colloqui saltano.

Il mandato di Abu Mazen a presiedere l’Autorità palestinese è scaduto all’inizio del 2009, ma questi si è rifiutato di convocare nuove elezioni per via dello scontro interno tra Fatah e Hamas. Infatti, la sua legittimità è ampiamente contestata da Hamas, che ha rifiutato in anticipo qualsiasi accordo preso senza la sua partecipazione. Il partito islamista che controlla Gaza non è stato incluso nei negoziati e rimane critico rispetto alle posizioni di Fatah.

Un’altra possibilità ventilata dalla Lega Araba, ma anche dai paesi europei, è proporre al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una risoluzione che riconosca l’esistenza dello stato Palestinese nei confini precedenti le conquiste del 1967. Alcuni hanno letto in questa ottica il programma lanciato dal primo ministro palestinese Salam Fayyad per costituire entro il 2011 le necessarie istituzioni economiche e di sicurezza per uno stato funzionante. Rimane tuttavia molto improbabile che gli Stati Uniti aderiscano al progetto di riconoscimento nel foro onusiano, dato che sostengono che lo stato della Palestina dovrebbe essere il risultato di un negoziato tra Israele e palestinesi.

Lo stato ebraico

L’11 ottobre Netanyahu ha fatto una offerta ad Abu Mazen: avrebbe chiesto al suo gabinetto di estendere la moratoria agli insediamenti per altri due mesi se i palestinesi avessero riconosciuto Israele come “lo stato nazione del popolo ebraico.” L’ironica risposta non si è fatta attendere: riconosceremo Israele come desidera – anche come stato cinese, se è ciò che vuole – però in cambio vogliamo la restituzione dei territori conquistati nel 1967, ha dichiarato Yasser Abed Rabbo, dell’Anp.

I palestinesi non sembrano intenzionati a svendere un’arma negoziale per una concessione estremamente limitata. Per l’Autorità nazionale palestinese sarebbe estremamente problematico riconoscere Israele come stato ebraico, perché implicherebbe la rinuncia del diritto di ritorno dei rifugiati palestinesi. Netanyahu, con questa proposta, sembra cercare di ottenere delle concessioni in termini di rifugiati prima di impegnarsi a negoziare la questione. La richiesta avanzata dal governo israeliano è stata anche letta come un tentativo di far ricadere sui palestinesi la responsabilità per un inevitabile collasso dei negoziati.

Allo stesso tempo il premier israeliano si troverebbe sotto pressione anche dai membri del suo gabinetto più ostili alla pace, come il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Il giornalista israeliano Uri Avnery sostiene che a sua volta Lieberaman stia cercando di sabotare i colloqui di pace per rafforzare le proprie credenziali di fronte al suo elettorato. Bisogna anche segnalare, però, che il riconoscimento del carattere confessionale dello stato risponde ad una preoccupazione di lungo termine di Israele, cioè la salvaguardia della sua identità nazionale quale stato ebraico. Difatti, se tutti i profughi palestinesi (e i loro eredi) tornassero alle loro case in Israele provocherebbero un grosso balzo nella bilancia demografica del paese, visto che ad oggi se ne contano quattro milioni.

Alla stessa ansia demografica pare voler rispondere una contestata proposta di legge che sottoporrebbe l’acquisizione della cittadinanza israeliana ad un giuramento di fedeltà al carattere “ebraico e democratico” dello stato. La proposta, presentata alla Knesset il 10 ottobre scorso, esigeva il giuramento a tutti i non ebrei che volessero prendere la cittadinanza israeliana, ma era stata tacciata di razzismo dai membri più progressisti del gabinetto di Netanyahu. Per venir loro incontro, la richiesta di giuramento era stata estesa a tutti i nuovi richiedenti, rischiando, però, di alienare l’ala più estremista del governo. L’uguaglianza formale tra i cittadini nati in Israele e gli ebrei immigrati, infatti, è un tema particolarmente sentito dagli ebrei dell’ex-Unione Sovietica che, grazie alla “legge del ritorno” del 1950 hanno goduto tutti i privilegi della cittadinanza.

Gli ebrei che negli anni novanta sono emigrati dall’ex-Unione Sovietica costituiscono lo zoccolo duro dell’elettorato di Yisrael Beitenu (“Israele è la nostra casa”), il partito del Ministro degli Esteri Lieberman. Questi aveva puntato la sua campagna elettorale nel 2009 proprio sul giuramento di fedeltà allo stato ebraico e su uno scambio di territori e popolazioni che permetterebbe di mantenere i maggiori insediamenti in Cisgiordania, in cambio delle zone di Israele abitate da arabi. Molti di questi elettori, infatti, sono coloni che osteggiano i colloqui di pace per timore che lo stato palestinese diventi un focolaio estremista e ammirano Lieberman in quanto uomo forte che sosterrà i loro diritti.

Il governo di unità nazionale di Netanyahu, dunque, si trova diviso dato che comprende una estrema divergenza di vedute, da quelle del partito laburista, al suo Likud e ai più radicali Yisrael Beitenu e Shahs. Questi ultimi rappresentano circa il 20% dei seggi della Knesset e molto spesso riescono ad orientare il premier verso le proprie posizioni.

Se la proposta di legge dovesse andare avanti, questo sarebbe un duro colpo per il milione e mezzo di cittadini arabi che costituiscono 1/5 della popolazione dello stato di Israele. Ancor di più, però, verrebbero colpiti i diritti di quei tanti ebrei israeliani che credono che giurare alleanza allo stato ebraico implichi una rinuncia al suo carattere democratico. La Dichiarazione d’Indipendenza dello stato di Israele, d’altronde, garantisce completa uguaglianza di diritti politici e sociali a tutti i suoi abitanti, indipendentemente da religione, razza o sesso.

Il rabbino progressista Donniel Hartman, il 17 ottobre scorso, ha ricordato il quindicennale del tragico assassinio dell’ex primo ministro Yitzhak Rabin, ucciso perché “dei membri della nostra società credevano che le loro convinzioni e il loro fervore nazionalista fossero più importanti del dovere dalla moralità”. Questa data dovrebbe essere utilizzata, secondo Hartman, per riesplorare il legame esistente tra nazionalismo ebraico e stato e su quale componente debba prevalere tra giudaismo e democrazia.

* Roberta Mulas è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)

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